Non è facile, dopo almeno 4-5 mesi in cui non passa giorno che non si assista a qualche trasmissione televisiva o si legga un articolo sui costi lunari del gas e quelli surreali dell’energia elettrica, scegliere le priorità dove puntare l’attenzione per fare un’analisi seria della situazione, senza ricorrere a semplificazioni eccessive, il che porta invariabilmente alle banalizzazioni.
Come è vero che per anni l’industria ceramica è stata dimenticata dai media (ma a sua volta, diciamoci la verità, per anni ci ha messo del suo per rimanere sotto traccia e non esporsi molto), ora Sassuolo, Imola, Faenza appaiono quotidianamente…. ovunque, data la pletora di canali, opinionisti, intervistatori, per non parlare del web, che è praticamente infinito.
Si comporta così oggi il sistema industriale ceramico emiliano-romagnolo, ma lo fanno pure le altre (poche) aziende sparse in Italia, normalmente più importanti a livello territoriale (infatti in questi casi si dice che ‘è il sindaco che va da loro’, e non sono ‘loro che vanno dal sindaco’, o dal politico importante di riferimento del territorio, sia un assessore, la Regione, un parlamentare…o Renzi).
Questa, signori miei, si chiama attività di ‘LOBBYING’. Non è un’arte, è una scienza, e come tale andrebbe affrontata. Seriamente, ed in forma organizzata. Cosa che non mi pare di vedere, nonostante tantissima buona volontà, il filo conduttore restano le grida di dolore, tanto allarme, che però rischia di essere sterile, e di fare la fine di chi gridava ‘al lupo al lupo’, e poi il lupo è arrivato davvero.
Cominciamo da una definizione precisa: ‘fare lobbying’ significa, né più né meno, rappresentare interessi ed istanze particolari presso le Istituzioni pubbliche. Per capire meglio che cosa voglia dire in concreto la nozione di ‘rappresentanza di interessi’, che in inglese si sintetizza nel concetto di ‘stakeholder’, occorre chiarire che si riferisce ad ogni processo decisionale che possa fare introdurre, modificare o sopprimere le regole che – in un determinato momento- disciplinano un mercato.
Le Istituzioni politiche ed amministrative infatti, in quanto regolatrici del mercato, che lo ammettano o meno, che siano capaci o meno, effettuano scelte discrezionali, cioè scelte politiche, che inevitabilmente incidono sulle condizioni di imprese, consumatori ed utenti di quel determinato mercato.
L’attività di lobbying si propone pertanto di supportare, anzi di ‘arricchire’ quei processi decisionali, facendo sì che la politica e i loro vari attori possano disporre di elementi sufficienti per valutare attentamente tutte le implicazioni e tutte le conseguenze di tutte le possibili opzioni di intervento.
Il mestiere del lobbista, che non a caso è spesso supportato da consulenti specializzati in analisi e proposte, consiste dunque nel proporre istanze concrete di miglioramento del quadro normativo per conto dei soggetti che operano in quel mercato.
Qui invece che si fa? Un pochino si fanno vedere le fabbriche nelle varie trasmissioni di urlatori, poi diciamo di riprendere a trivellare domattina, anche se sappiamo benissimo che è impossibile, poi sentiamo tirare per aria dei gran numeri del Lotto, visto che ogni mattina si guardano certi valori su Internet senza saper operare in proprio con broker e trader di livello adeguato, dopo che per anni ci si guardava ‘una volta all’anno e poi basta’. E’ pure iniziato il ricorso ai derivati, per trasformare il rischio economico in un rischio finanziario, stipulando accordi con banche per vere e proprie scommesse, rimandando così ai futuri esercizi gli eventuali sovracosti. Basta arrivarci vivi, ai futuri esercizi.
Il bilancio 2022 quindi vedrà per alcuni un impatto del gas a prezzo prefissato, e l’eventuale dare/avere sopra o sotto la soglia effettiva verrà poi compensato o conguagliato ed eventualmente ‘spalmato’ negli esercizi successivi.
Perfetto, invece di essere nelle mani di Putin, si va nelle mani della finanza.
Alzare i prezzi sembrava difficile, ma lo han fatto tutti, chi più chi meno, chi prima chi dopo, e siamo oramai alla ‘terza dose’, cioè all’ondata di rincari che sembrano eccessivi, ma quando sentiamo gli spagnoli dirci che non abbiamo aumentato abbastanza, viene da sorridere, pensando a certi prezzi praticati con margini unitari abbastanza ridotti ma volumi micidiali, figli di un modello industriale da noi poco praticato.
L’attività di lobbying che dovrebbe essere fatta (e che in Spagna si fa eccome, anzi, non meno che qui) consiste alla fine nel proporre modifiche alla legislazione di carattere generale che disciplina i meccanismi cruciali del mercato, tra cui quelli fiscali, ma soprattutto deve cercare di influenzare una POLITICA INDUSTRIALE, quella scritta con le maiuscole. Senza quella, parliamo di cerotti, se non di aria fritta, e poi non c’è tempo, qui la situazione si fa davvero grave, e non si può ricattare la politica dicendo ‘chiudiamo tutto’, ‘lasciamo a casa tutti e poi dovrete pensarci voi ai nostri dipendenti’, perché anche nel pubblico sanno leggere i bilanci, oh yes, e vedere che nel recente passato ci sono stati esercizi e bilanci ‘clamorosi’.
Non si può allora pensare di privatizzare sempre gli utili, e di socializzare le perdite. Troppo facile allora, questa è roba per lobbisti veri, o per imprese forti e dal potere contrattuale enorme, come … la Fiat.
In Italia c’è POCA lobby, non TROPPA lobby. Il coinvolgimento degli interessi privati nel processo di formazione della decisione pubblica (e degli atti normativi nei quali essa si traduce) è affidato ancora, troppo spesso, non alla rappresentanza, ma alla contiguità: non, cioè, ad una attività professionale, ma alla capacità di far leva su singoli rapporti, personali ed individuali dell’imprenditore con le banche, con i sindacati, e con le istituzioni o con il politico ‘che conta’, non collettivi. Questo avviene anche nelle PMI, visto che siamo il Paese delle mille associazioni, di categoria, territorio, e chi più ne ha più ne metta.
In ogni caso, l’attività lobbistica non deve MAI poter favorire un solo operatore o una sola categoria di prodotti, ma si deve sempre proporre di modificare l’assetto complessivo delle politiche di settore, a favore di un comparto produttivo, non di una singola azienda.
Non a caso, le aziende forti, se osservate con attenzione, è da un po’ che… stanno zitte. Aspettano le difficoltà di quelle più deboli. Chiedetevi il perché.
Perché, invece di fare unione per fare forza, ai forti in generale conviene fare da soli, aspettando di raccogliere col cucchiaino qualcuno sfortunato ma meritevole di aiuto, soccorso e … magari fagocitarlo.
Gli imprenditori più grandi e le associazioni di categoria più importanti non hanno alcun problema a varcare le soglie dei palazzi del potere, gli altri si affidano agli ‘amici’ per raggiungere politici, amministratori e funzionari pubblici. Ma qui con Putin questi possono fare ben poco.
‘Homo homini lupus’,’bellum omnium contra omnes’. ‘Only the braves’, insomma, staremo a vedere.
Al lobbying diretto, quello che stanno facendo le singole imprese e le associazioni ceramiche e tutte le imprese energivore, si affianca oggi un lobbying ‘indiretto’, orientato ad incidere sulla visione di opinione pubblica, sistema dell’informazione e figure rilevanti, per avanzare pressioni indirette sui decisori, chiamandoli a rendere conto del proprio operato di fronte alla platea dei cittadini-elettori coinvolti nelle iniziative e colpiti dagli effetti distorti di un mercato che parte per la tangente e va fuori controllo, rompendo equilibri non solo tra le aziende, ma tra produttore e consumatore, a cui le risorse iniziano parimenti a mancare.
Nel novero di queste iniziative rientrano la protesta pubblica, le campagne di stampa, le azioni sulle piattaforme social, momenti di coinvolgimento dei pubblici di riferimento, creazione di reti dedicate, occasioni di studio e riflessione aperte a decisori, cittadini, media, soggetti di mercato; si tratta di attività volte a riprodurre in modo indiretto meccanismi o ‘formati’ di influenza su decisori altrimenti inaccessibili o restii nei confronti dell’interesse presentato dagli stakeholders. Ma qui piangono TUTTI.
Francamente, è qui che manca qualità. Si vede che –non potendosi creare e costruire dal nulla in pochissimo tempo- manca la capacità professionale di fare lobbying sistematico ed avanzato, come invece fanno da decenni le grandi e grandissime imprese, quelle troppo importanti per dimensione e rilevanza economica, soprattutto…guarda caso i colossi energetici. Le associazioni di imprese medie e medio-grandi hanno spesso una rappresentanza troppo eterogenea e frammentata per essere adeguatamente rappresentata. Lo abbiamo visto proprio nel caso del terzo fuoco, un settore disintegrato nel disinteresse generale nonostante impiegasse migliaia di persone.
Quando resteranno meno imprese, probabilmente la situazione cambierà. Non a caso in Spagna ci sono 5 imprese ormai colossali e quindi loro riescono un pochino meglio, in un contesto territoriale comunque diverso.
Intanto, a proposito, le esportazioni spagnole di piastrelle sono aumentate nel 2021, superando i 3.665 milioni di euro.
Le vendite all’estero sono cresciute del 24,62% rispetto all’anno precedente, secondo i dati ICEX ed ASCER.
Si tratta di una percentuale molto superiore alla crescita che aveva registrato negli ultimi dieci anni, che non aveva mai superato una media del 5%, e tantomeno i 3.000 milioni.
Questi dati certificano la forza del settore spagnolo che, nonostante –anzi, proprio in reazione alla crisi del coronavirus- ha risentito assai poco a livello di vendite, al pari, se non di più, di quello italiano.
Tuttavia, è ovvio che pure in Spagna dallo scorso settembre 2021 non è tutto oro ciò che luccica, poiché, a questo aumento del valore delle esportazioni risponde in parte anche l’aumento del prezzo del gas e di alcune materie prime essenziali. I datori di lavoro di ASCER denunciano che questo aumento dei costi pesa sulla loro competitività. Infatti, lo scorso dicembre, il presidente Ascer, Vicente Nomdedéu, come un moderno Monsieur de la Palisse, ha osservato che il settore ha sì un elevato portafoglio ordini e che non sta attraversando una crisi della domanda, ma piuttosto …. ‘una crisi dei costi’.
Ma toh, ma chi l’avrebbe mai detto?
Meglio concentrarsi invece sui dati preconsuntivi 2021, che riflettono non solo questa spettacolare crescita, ma anche un cambiamento nei principali mercati internazionali della ceramica. Gli Stati Uniti si consolidano come la principale destinazione dei prodotti ceramici spagnoli con un fatturato stimato di 447 milioni di euro, che rappresenta un aumento del 24% rispetto all’anno precedente. In questo modo, gli USA nel 2021 rappresentano ben oltre il 12% del peso dell’export del settore ceramico. Il secondo mercato continua poi ad essere la Francia, con 398 milioni di euro di vendite ed un peso dell’11%, e, nonostante sia stata superata dagli USA anche le esportazioni verso la Francia sono cresciute del 18% rispetto al 2020, certo non poco.
Le vendite nel Regno Unito sono poi cresciute del 24,5 % e lo UK rimane il terzo mercato.
Colpisce invece la crescita davvero sensazionale delle esportazioni in due Paesi dove noi non siamo forti, cioè nella Repubblica Dominicana e in Israele. Nel Paese caraibico le vendite sono cresciute del 112%, passando dai 40 milioni di euro del 2020 agli oltre 84 milioni dell’anno scorso.
Israele, da parte sua, è passato dall’essere il settimo mercato nel 2020 al quarto nel 2021, con un fatturato di 156 milioni, una crescita atomica del 67% rispetto all’anno precedente.
Dei dieci mercati principali, l’export è calato solo in Arabia Saudita, che è scesa all’ottavo posto con un fatturato di 125 milioni. I dati definitivi arriveranno tra poco, per ora ci sono solo i dati certi a fine Ottobre 2021. E noi cosa facciamo nel frattempo, nonostante gli –indiscutibilmente- ottimi risultati del 2021? Ce la prendiamo con indiani e turchi, che mettiamo sotto osservazione per vedere se esportano in Europa a condizioni di dumping. Abbiamo materiale per poterne discutere abbastanza nei prossimi mesi.
Ing. Cristiano Canotti